Laura Vaccarella, laureata in Giurisprudenza presso l’Università Bocconi e nostra studentessa nel corso di formazione “Mental Coaching di Primo Livello” – Bocconi Sport Team, ci propone una riflessione sulla canzone “BELLO BELLO” di Martelli. 

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Di recente, ho sentito la canzone “BELLO BELLO” di Martelli al noto programma televisivo “ITALIA’S GOT TALENT”. A parte l’esibizione in sé, che consiglio caldamente di vedere perché è grandiosa, ciò che mi ha spinto a voler scrivere questa riflessione è il testo di quella che, con ogni probabilità, diventerà una hit virale. Il tema esposto, infatti, è molto pertinente con il Coaching. A detta di quanto Martelli stesso ha affermato, prima della sua performance, la sua composizione è dedicata “a quei datori di lavoro che arrivano sul posto di lavoro e pensano di sapere meglio dei loro dipendenti come fare il lavoro e li stressano un po’ ”. L’argomento, quindi, è la leadership. Pertanto, per iniziare, trascrivo qui le parole del brano, dopo averlo ascoltato:

Arriva lui, bello bello. 

Ci pensa lui, stai tranquillo. 

Da dove viene lui, bello bello…Fa tutto lui, manco a dirlo. 

Ripete sempre, che non aveva niente, poi si è preso tutto da solo, imparando le lezioni sulla pelle, è un caso più unico che raro. 

Arriva lui, bello bello. 

Ci pensa lui, stai tranquillo. 

Da dove viene lui, bello bello…Fa tutto lui, manco a dirlo. 

E io che sono scemo, non ce l’ho neanche con lui. 

Sì sono così buono, che lo perdono. 

Tanto chi lo vede più… 

A quello chi lo vede più… 

Ma chi lo vede più, bello bello. 

Arriva lui, bello bello. 

Fa tutto lui, manco a dirlo.” 

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Si tratta, probabilmente, di un dialogo interno che un dipendente ha in merito al suo capo. Tuttavia, potrebbe rappresentare anche il chiacchiericcio, la voce dei corridoi, tra più dipendenti che si confrontano sulle sensazioni che hanno riguardo al loro datore di lavoro. Ad ogni modo, è innegabile che si tratti di un inno in cui molte persone si possano ritrovare e, pertanto, tratterò dei seguenti personaggi: il datore di lavoro e i suoi dipendenti.

In generale, si evince che la figura di leader descritta è tra quelle che adottano una strategia di leadership orientata a una cultura di dipendenza. Solo lui può fare perché solo lui sa fare. Il povero dipendente può (o addirittura deve) solo aspettare l’intervento divino del capo, risolutore di qualsivoglia questione. Il leader è “bello bello” perché: superiore; tranquillo nella propria rassegnazione a essere circondato da esseri inferiori che non saranno mai in grado di imparare come ha fatto lui; proveniente da un mondo diverso composto da menti elette; totalmente noncurante dei sentimenti che il suo modo di condurre provoca nei dipendenti. I concetti di coscienza e responsabilità, tipici, invece, di una cultura di leadership caratterizzata da interdipendenza ed eccellenza, sono lontanissimi dal repertorio di questo leader.

La conseguenza di tutta questa “beltà” è l’inevitabile ammutinamento, conscio o inconscio, dei sottoposti con conseguente eliminazione del leader che non riesce a superare i traguardi prefissati a livello lavorativo. Quello che avviene è facile da intuire. Al capo non va mai bene niente del lavoro svolto dai suoi sottoposti. L’unico feedback che i dipendenti ricevono è che, di default, loro non sono in grado e che ci deve pensare lui. Tuttavia, i dipendenti non sono tranquilli per il fatto che “tanto ci pensa lui” bensì stressati perché devono ricercare dal capo la legittimazione, l’autorizzazione, per portare a termine il compito. Questa corsa continua alle parole del capo, è una fatica, una sofferenza, per la quale il leader deve ricevere il perdono da parte dei sottoposti al momento del “tanto chi lo vede più”.  Inoltre, poiché non va bene mai nulla di quello che viene fatto, perché farlo? Anzi, diventa doveroso non metterci mano e far fare al capo. Si sa già che non si sa svolgere un determinato compito e, allora, senza rischi, bisogna che agisca il capo direttamente o, quantomeno, che dia istruzioni su come fare. La maggior parte dei dipendenti, se non tutti, chiede istruzioni o l’intervento del capo che trascorre, quindi, il tempo a svolgere il lavoro dei suoi sottoposti e non il suo. Al fine di avere le condizioni ottimali per svolgere al meglio il proprio lavoro, il capo finisce, paradossalmente, per non avere tempo di fare ciò che dovrebbe fare davvero.

Allo stesso tempo, i dipendenti iniziano ad avere una visione di sé molto limitante, per quanto sarcastica comunque incline al mettersi in dubbio, in maniera negativa. Si muovono solo all’interno di una cornice ben definita, sicura. Nel proprio dialogo interno, si rendono conto che dovrebbero far notare i meccanismi negativi che si creano al proprio capo, con le dovute cautele, con le maniere opportune, ma si danno degli “scemi” perché, a loro volta, spinti da una presunta pietà e un ipotizzato disinteresse al conflitto, sanno benissimo che loro, tacendo, per le più varie e, anche valide, motivazioni, sono responsabili della cultura di dipendenza ed egoismo creatasi tanto quanto lo è il loro capo.

Nell’immediato, a perdere è il leader che viene, probabilmente, sostituito. Nel lungo periodo, invece, a perdere sono i dipendenti che con il continuo turn over di capi, in contesti di stile dirigenziale alla “avanti un altro”, non possono accrescere il proprio potenziale e, nella peggiore delle ipotesi, possono addirittura pensare di non averlo. Infatti, si crea un’escalation di situazioni pregresse che boicotta il presente, togliendo il tempo alla creazione di rapporti interdipendenti in favore di un malsano recupero in volata di danni passati.

Arrivati a questo punto, sebbene non impossibile, diventa di certo una sfida intervenire come un leader che sia anche Coach, in grado di alzare il senso di benessere dei propri dipendenti mentre svolgono le proprie mansioni. In conclusione, le parole della canzone di Martelli riassumono in musica una tra le dinamiche che possono verificarsi in presenza di una leadership gerarchica, offrendoci, in tal modo, molti spunti di analisi.

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