Qui di seguito un estratto della Tesi di Alessandro Robotti elaborata in occasione del Corso di Mental Coaching, organizzato dalla Società Sportiva Bocconi Sport Team in collaborazione con i Docenti/Coach Amanda Gesualdi ed Alberto Biffi, presso l’Università Bocconi di Milano. Alessandro Robotti, sportivo e appassionato di tennis, ha conseguito una Laurea in Filosofia, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, diplomandosi con 110/110 e lode.
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Due termini, quelli di “angoscia” e di “gioco” che saranno in grado di gettare nuova luce sull’attività di Coaching. Se non altro, con meno supponenza da parte di chi scrive, sulle potenzialità di governo che il Coaching può assumere fra queste due categorie, mostrando così la sua reale essenza.
Due categorie fondamentali dell’esistenza che – privata la prima (l’angoscia appunto) di ogni pur possibile risvolto patologico e spogliato il secondo (il gioco) della nozione di puro intrattenimento infantile o di passatempo senza età – si faranno prima oggetto di approfondimento speculativo per poi riemergere come concretissima esperienza esistenziale, passaggio essenziale per la piena realizzazione di un’attività di Coaching.
Nell’intraprendere questa prima parte del percorso verranno seguite le tracce lasciate da pensatori di epoche diverse, animati da intenti diversissimi tra loro, eppure dibattendosi comunemente e strenuamente fra interessi filosofici, sociologici e antropologici senza timore di contaminarsi. Kiergagaard, Nietzsche, Gadamer e Huizinga a tracciare la rotta, grazie a intuizioni che si fecero sistema e che, seppure con qualche forzatura che forse avrebbero rifiutato, condurranno nei pressi del Coaching. Ma si sa, per dirla con Wittgenstein (solo nei suoi Diari si spinse a tanto), non bisogna mai temere di forzare la gabbia del linguaggio: da questo gesto scardinatorio può emergere quell’eccesso di senso che permette di spingersi oltre nella comprensione.
La situazione di insicurezza, di inquietudine e di “attanagliamento” propria dell’emozione dell’angoscia è messa a tema da due scritti del filosofo danese Søren Kierkegaard, che, accanto alle Briciole e alla Postilla, costituiscono il nucleo più prettamente filosofico del pensiero di Kierkegaard: Il concetto dell’angoscia (1844) e La malattia mortale (1849).
Proprio ne Il concetto dell’angoscia Kierkegaard asserisce che “L’angoscia è la vertigine della libertà”: se l’angoscia, o ansia che sia (evitiamo in questa sede di porre ulteriori distinguo”), nel XX e XXI secolo vengono associati alla malattia e, con Freud in particolare, alla nevrastenia, può sorprendere l’uomo contemporaneo sapere che prima di questi sviluppi novecenteschi alcuni pensatori parlarono dell’angoscia come di una reazione arricchente, o almeno potenzialmente arricchente, di fronte alla scoperta della libertà individuale.
Questo almeno potenzialmente, nel momento in cui, non a caso, Kierkegaard parla di “vertigine” della libertà di scelta umana, di “indugio” in questa vertigine, quasi che – si perdoni la semplificazione – al pari di un moderno asino di Buridano (XIV secolo) in tale vertigine si “decida” di dimorare. L’apologo narra come un asino, posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza, non sappia scegliere, morendo di fame e sete nell’incertezza. Uno scacco che ha, nella sua semplificazione, l’unico scopo di far emergere a riflessione il ruolo di “intelletto” e “volontà” come protagonisti non solo del decidere umano, ma anche della libertà condizionata del decidere umano. Eppure, una volta portato a maggior complessità il dilemma del povero asino e – detto sorridendo e certi che l’asino ben saprebbe cosa fare, garantendosi una doppia razione – caricata la libertà di responsabilità, incertezza sul futuro, mancanza di coraggio e accidia (altre motivazioni si potrebbero addurre) la vertigine, insuperata, può assumere aspetti paralizzanti.
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Una sosta nella concretezza prima di immergerci in una nuova speculazione, a offrircela è Federico Polidori (Training Specialist, Role Playing Game Designer, Life Coach) nel suo riportarsi alla definizione di gioco offerta dal sociologo, antropologo e e critico letterario francese Roger Caillois (1913-1978), rielaborata in funzione del parallelismo con l’ambito del Coaching. Sei i punti “estrapolati” da Polidori e che qui riportiamo quasi integralmente.
– La prima caratteristica che contraddistingue l’attività ludica è il fatto di essere “libera”, ovvero esente da obblighi per i quali il gioco stesso perderebbe immediatamente la sua natura ludica e il coinvolgimento spontaneo da parte del giocatore. Libertà di espressione, senza vincoli comunicativi o copioni da seguire nel porre al centro del dialogo l’obiettivo e la problematica del coachee; semmai, spontaneità e nessuna preclusione all’emozionalità.
– La realtà del gioco viene definita come “separata”, nel senso di circoscritta all’interno di un limite spazio temporale specifico, a sé stante e pianificato in anticipo. Ogni sessione di coaching ha una sua unicità sia di contenuto sia di spazio “separato dalla realtà”, sebbene l’argomento di ogni sessione ha un’origine e un impatto su aspetti della vita privata, lavorativa, sportiva ecc. del coachee. Ciò non toglie che l’ambito spaziale in cui avviene la relazione di coaching resta comunque “separato” per un tempo predefinito dal normale scorrere del quotidiano.
– L’attività di gioco è “incerta”, le sue dinamiche non sono prevedibili a priori né l’esito o la vittoria possono venire acquisite in maniera preliminare; inoltre, dai giochi più strutturati a quelli con un maggior livello di libertà da parte del giocatore, vi è un certo grado di inventiva, o comunque di contributo personale, lasciato all’iniziativa di chi vi partecipa. In una sessione di coaching, l’incertezza costituisce la base conversazionale del rapporto tra coach e coachee; “la destinazione” di arrivo non è nota a nessuno dei due “attori” in scena.
– La dimensione ludica si caratterizza poi per essere “improduttiva”; così anche nella relazione di coaching, dove non si produce nulla di tangibile in termini produttivi ma si definiscono obiettivi che porteranno ad azioni quanto più poi misurabili in termini di risultati.
– Il gioco è un’attività “sottoposta a regole e a vincoli” che sospendono temporaneamente (e parzialmente) le leggi del vivere quotidiano per dare luogo a un surplus di regole da utilizzarsi nel “gioco” di riferimento. Questo al di là di una formalizzazione contrattuale in cui vengano identificati molteplici aspetti metodologici ed etico-professionali.
– La realtà del gioco viene definita come “fittizia”: la dimensione ludica porta il giocatore a sperimentare una consapevolezza specifica di una realtà “altra” rispetto al quotidiano. La relazione di coaching porta il coachee a rendersi consapevole in maniera autonoma di un modo diverso di leggere la sua realtà, proprio rispetto alla maniera in cui è solito viverla.
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