Giorgio Masera è studente di Marketing Management, presso l’Università Bocconi, per il percorso specialistico dopo la laurea triennale in Economia Delle Imprese e Dei Mercati. Gioca a tennis per il TC Bergamo da 10 anni, partecipando a tornei a squadre di livello nazionale, e da settembre 2020 è parte del Bocconi Tennis Team. Con il Bocconi Tennis Team sta seguendo un percorso di Mental Coaching, e con l’occasione è stata fatta un’analisi del film “Invictus” di Clint Eastwood, che Giorgio ci propone in questo articolo.

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Invictus, diretto dal celebre Clint Eastwood, è incentrato intorno alla figura di Nelson Mandela che cerca di riappacificare la popolazione del Sud Africa, ai tempi divisa da un odio tra la comunità bianca e quella nera, attraverso la rappresentativa di rugby del paese, che si stava preparando alla Coppa del Mondo del 1995. È un film estremamente significativo che porta qualsiasi osservatore a riflettere su tematiche molto differenti tra cui la conquista della libertà, la democrazia, la lotta razziale, il perdono, l’importanza dello sport e di un maestro. Questa relazione riguarderà proprio quest’ultimo argomento.

Madiba, come viene chiamato affettuosamente dalla comunità nera, cerca di portare al successo la squadra nazionale dimostrandosi un grande leader e incarnando le qualità di un grande coach. Ma cosa vuol dire essere un allenatore? Per poter rispondere a questa domanda bisogna analizzare attentamente diverse scene: la conversazione tra Mandela e il capitano François Pienaar, il saluto alla squadra il giorno prima dell’inizio della Coppa del Mondo, il giorno speso dalla rappresentativa a insegnare il rugby alle comunità più povere e la visita al carcere.

Nella prima scena, durante il dialogo, il Presidente pone due domande estremamente profonde al Capitano: “Come possiamo ispirare gli altri?” e “Come possiamo far credere loro di essere migliori di quello che sono?”. In queste poche parole trasmette il messaggio che non ha convocato il rugbista nel suo ufficio per dargli delle istruzioni o per imporgli qualcosa, ma per conoscerlo, capirlo e soprattutto farlo riflettere. Un buon maestro non è infatti colui che dà le risposte, è colui che pone le domande appropriate a indirizzare il proprio allievo sulla giusta strada, ma sarà poi compito dello studente percorrerla e raggiungere consapevolezza e coraggio. Questa abilità è la caratteristica tipica del leader “visionario” che condivide il proprio obiettivo e che cerca di creare un clima positivo.

Nella seconda scena Mandela memorizza i volti e i nomi di tutti giocatori e, entrato in campo, augura buona fortuna singolarmente a ognuno di loro. Questa scena, che potrebbe essere considerata poco rilevante, è invece estremamente significativa: il Presidente, nonostante i suoi mille impegni e la sua salute precaria, è comunque disposto a seguire il rugby, uno sport che non aveva mai praticato e di cui non si era mai interessato, e a sottolineare l’importanza di ogni singolo giocatore. Dimostra così di essere un leader “coach” e “democratico” che considera ogni persona, e secondo cui nessuno è superfluo.

Nella terza scena Madiba non è presente, ma è proprio per sua richiesta che la squadra è costretta, estremamente contro voglia, a recarsi in diverse aree del paese e a interagire con le comunità più povere. In questo contesto i giocatori trovano qualcosa che permetterà loro di avere successo nel campionato mondiale. Quella giornata permetterà infatti ai giocatori di migliorare dal punto di vista mentale. Per la prima volta sono costretti ad affrontare, senza disprezzare, argomenti importanti quali la povertà e la discriminazione. Questo trasmetterà a tutti loro un senso di pace e di consapevolezza: capiscono che in campo non rappresentano solo la minoranza bianca, ma rappresentano un intero stato composto da 43 milioni di abitanti. In questa situazione il presidente dimostra così di essere un leader “sociale” capace di creare unità e coesione.

Nella quarta scena il protagonista è François Pienaar che, durante la visita al carcere in cui Mandela era stato rinchiuso per ben 27 anni, si chiede come sia possibile che un uomo sia stato in grado di non odiare, anzi di perdonare, chi l’aveva segregato in una stanza di pochi metri quadrati per tutti quegli anni. Per darsi una risposta si immagina il Presidente che, seduto col volto rivolto verso il muro, rilegge la poesia che gli dava forza nei momenti di difficoltà. Quest’ultima è ricchissima di significato e sottolinea che anche nei momenti più terribili (“Dal profondo della notte che mi avvolge, nera come un pozzo che va da un polo all’altro”) bisogna essere in grado lottare e di avere coraggio e soprattutto di essere padroni della propria vita (“Io sono il capitano della mia anima”). Il Capitano capisce così che per raggiungere i suoi obiettivi e per crearsi un carattere così forte ha bisogno di tempo e di fatica (come diceva infatti Manzoni nell’Adelchi “Soffri e sii grande”). In questa situazione Mandela appare così come una vera e propria figura da imitare, un modello irraggiungibile, tipico del leader “battistrada”.

Dopo aver approfondito questi quattro significativi momenti si può facilmente rispondere alla domanda di apertura: un Coach è colui che ha accumulato molta esperienza e che è ora disposto a metterla a disposizione dei propri studenti al fine di migliorare la loro performance trasmettendo loro consapevolezza e autostima, lavorando quindi sulla loro mentalità. Il Coach deve quindi saper incarnare tutte le caratteristiche del buon leader: condividere l’obiettivo con ciascuno dei propri studenti, sottolineare l’importanza di ciascuno all’interno della squadra, creare coesione, trasmettere una mentalità positiva e dare il buon esempio incarnando tutti i valori che insegna.

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