Monica Nali, Coach & Ambassador University Coaching, ci parla del Coaching nel film “Sette anni in Tibet”. Buona lettura!

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Il raffronto tra cultura occidentale (oserei dire della peggior specie) e cultura orientale in questo film è magistrale. Trasuda dalla trama attraverso la trasformazione di Heinrich, nell’amicizia che nasce tra lui e il XIV Dalai Lama, fino alle relazioni che intesse con le persone locali. La semplicità, la delicatezza e l’umiltà con cui la cultura orientale risponde a quella occidentale è di una forza tale da disarmare l’avversario. Questo film offre l’opportunità di conoscere un po’ la cultura tibetana, una cultura che ritengo offra molti stimoli a chi vuole praticare coaching.

L’abbandono dell’Ego di cui parla Pema, la moglie tibetana dell’amico austriaco Peter (“Questa è un’altra grande differenza tra la nostra civiltà e la vostra: voi ammirate l’uomo che si spinge avanti, verso la cima, in ogni campo della vita, mentre noi ammiriamo l’uomo che abbandona il suo ego.”) è fondamentale per porsi in una condizione di Ascolto Attivo, liberi il più possibile da condizionamenti e giudizi, dalle influenze che la propria esperienza può esercitare, completamente focalizzati sull’altro. Il rispetto per qualsiasi forma di vita aiuta a vedere le persone come preziose, in possesso delle risorse e la creatività necessarie per individuare la strada verso il proprio obiettivo.

E ancora, la valenza positiva del nemico (“Il nemico è un grande maestro, perché solo un nemico ti aiuta a rafforzare la pazienza e la compassione.”) che intenderei più semplicemente e in senso lato come ostacolo, ovvero quel qualcosa che ci obbliga a trovare alternative, ad esercitare la capacità di uscire dalla zona di comfort, di fare un percorso di apprendimento, di ampliare l’utilizzo dei nostri punti di forza e di estenderlo ad altri campi, generando, in ultima analisi, risorse nuove.

Il Dalai Lama, nell’innocenza della sua giovinezza, utilizza un linguaggio semplice, diretto e rispettoso. Un esempio per tutti, quando Heinrich gli comunica la difficoltà/impossibilità di costruire il cinema e salvare allo stesso tempo i vermi, il Dalai Lama ributta la palla nella metà campo di Heinrich in modo molto elegante e lusinghiero tanto da non lasciare spazio a risposte (“Lei è un uomo intelligente! Trovi una soluzione, e mentre la trova… è capace di spiegarmi che cos’è unascensore?”). Analoga capacità di comunicazione è quella di Pema, per esempio quando sottolinea in più occasioni a Heinrich le differenze tra le due culture.

Non si può non parlare della compassione secondo la cultura tibetana: “Il termine tibetano tse-wa, che designa appunto la compassione, indica uno stato mentale in cui è incluso anche il desiderio di ottenere cose buone per sé stessi. Quando cerchiamo di maturare la compassione, forse possiamo cominciare dal desiderio di liberarci personalmente dalla sofferenza e in un secondo tempo, coltivando questo sentimento naturale verso noi stessi, rafforzarlo fino ad includervi tutti gli altri.”(1) La compassione sfocia in impegno, responsabilità e rispetto nei confronti di noi stessi e del prossimo.

E questo è il percorso che un coach deve fare per essere prima di fare: un percorso attraverso sé stessi, per ritrovare l’equilibrio, volersi bene e prendersi cura di sé per poi essere in grado di prendersi cura degli altri.

(1) Dalai Lama con H. C. Cutler, L’arte della Felicità, 2009.

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