Christian Nobile, giocatore di Football Americano, ha disputato Campionati di serie A per 17 anni vincendo tre Campionati Italiani ed entrando in Nazionale per quattro stagioni. Attualmente Allenatore-Capo in una squadra di seconda divisione e Personal Trainer, segue con noi un Percorso per divenire Mental Coach. A seguire la sua relazione sul libro “Il Gioco Interiore del Tennis” di Timothy Gallwey.
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Il gioco interiore del tennis è un manuale per imparare a gestire, conoscere e sfruttare il nostro potenziale, partendo dalla mente. Attraverso la metafora del Tennis, Gallwey ci accompagna in un viaggio all’interno della nostra mente, svelando alcuni stratagemmi utili a sfruttare le proprie potenzialità e focalizzandosi sul presente.
Prima di tutto ci vuole un contesto. Ad esempio: “sono il linebacker dei Pittsburgh Steelers e il mio obiettivo è aiutare la squadra a vincere, per fare questo devo essere contemporaneamente un buon placcatore e abile contro i passaggi”. Il contesto ci dice molto della persona, del tipo di pressione che subisce e di quello che vuole ottenere. Nella prima fase c’è bisogno di ascoltare l’atleta, farlo esprimere e portarlo a raccontare i suoi punti forti e i suoi punti deboli, cercando di capire quali sono le sue convinzioni e quali le sue incertezze. Gallwey ci illustra come il nostro cervello sia diviso in due parti ben distinte e opposte, il Sé1 che rappresenta la parte che “pensa e valuta” e il Sé2 che rappresenta la parte che “agisce”. Queste due parti sono spesso in conflitto perché il Sé1 giudica sempre quello che facciamo, quando lo facciamo e perché lo facciamo. Il Sé2, che saprebbe già come fare le cose, subisce l’influenza del Sé1 e finisce per commettere errori. La chiave per raggiungere i propri obiettivi sta nel saper far funzionare in armonia i nostri due Sé.
Tornando al linebacker degli Steelers, sarà compito del Coach ascoltarlo senza giudicare, capirne i punti deboli e attuare meccanismi per tirare fuori dall’atleta il meglio possibile. Andando per gradi, la prima cosa da fare è agire sul Sé1, citando Gallwey, l’ego della mente interferisce con le nostre capacità naturali, pertanto l’obiettivo del coach sarà quello di calmare l’atleta facendo in modo che il Sé1 non giudichi e non interferisca o interagisca con il lavoro del Sé2.
La storia del nostro linebacker è fatta di tantissimi successi universitari, di tantissime ore di lavoro e ora che si trova tra i professionisti subisce sicuramente la pressione dell’essere stipendiato, di dover mantenere la famiglia, di non poter sbagliare per paura di perdere il lavoro. Tutte queste interferenze fanno si che una persona che non ha un buon dialogo tra i due Sé rischi di crollare entrando in un circolo vizioso nel quale proietterà i “fallimenti” passati sul futuro ripetendoli all’infinito. Il Sé1 è il problema principale, le pressioni esterne lo condizioneranno e appena si compirà un’azione questa verrà giudicata, sia negativamente che positivamente, e ciò avrà effetto sul Sé2 che nel momento in cui dovrà ripetere l’azione sarà influenzato dal giudizio.
Altro esempio: siamo in partita e il nostro linebacker si trova 1 contro 1 con il RB e sbaglia il placcaggio, il Sé1 incomincerà ad agire sull’azione singola insultandosi e ancora peggio dandosi consigli come ad esempio “avevo il piede nella posizione sbagliata”, “non ho guardato le anche e mi sono fatto fregare dalla finta di corpo”, o ancora peggio “oggi proprio non è giornata”, “sto dormendo, non so cosa guardare”; queste tipologie di giudizio fanno si che nell’azione successiva il Sé2 due si trovi a dover sconfiggere questi pensieri, e poi placcare, entrando così in un loop dal quale non uscirà.
Il compito del Coach è riuscire a trasmettere certezze in allenamento grazie alle quali il suo linebacker potrà entrare in partita a “mente libera” raggiungendo uno status nel quale il Sé2 giocherà in libertà senza interferenze. Nella mia esperienza di personal trainer e di coach, facendo miei i suggerimenti di Gallwey, ho iniziato a pormi diversamente sia nelle spiegazioni degli esercizi o delle tecniche, sia nelle correzioni. Partendo dal presupposto che l’obiettivo principale che mi pongo è che gli atleti smettano di giudicarsi, il secondo è che raggiungano da soli l’obiettivo, quindi cerco di abbattere le interferenze facendoli concentrare direttamente sui dettagli. Nel football possono essere il pallone o la posizione delle anche di un avversario, nel personal training li faccio concentrare sulla respirazione, in questo modo gli atleti tornano ad “essere bambini” apprendendo per esperienza diretta, senza pensare, e conquistando la tranquillità che li rende liberi di sbagliare. Cerco inoltre di dare spiegazioni figurative per fare vivere la sensazione del gesto che stanno per fare o far immaginare l’obiettivo di quel gesto.
Importante per me è che l’atleta si concentri su un gesto alla volta. Gallwey ci fa capire bene come il qui ed ora sia la parte fondamentale delle nostre esperienze nella vita, pertanto da Coach mi preoccupo di dare indicazioni che portino l’atleta a vivere solo e soltanto l’azione che sta per compiere, fine a se stessa, e questo è un ottimo modo per mettere a tacere il Sé1. Nel Football si gioca su quattro tentativi, quello che mi preoccupo di dire ai miei ragazzi è di non pensare al risultato finale o alla strategia, ci sono i Coach per quello, ma di pensare solo all’azione che stanno per compiere e di resettare subito dopo, a prescindere del risultato dell’azione precedente: ne abbiamo un’altra da giocare che parte da zero e che non tiene conto di quello che è successo prima o che succederà dopo.
Un punto che mi ha colpito molto del libro è nel capitolo nove, quando si parla del significato della vittoria, ho trovato descritto per intero il mio modo di approcciare la vita e il football. Per me vincere è sempre stata l’unica cosa che conta, in tutti i campi, e, come tanti motivatori dicono, vincere ha un prezzo spesso caro, io ho sacrificato lavoro, affetti, tempo, momenti, tutto. Sono diventato totalmente dedito alla ricerca della vittoria, tanto da non apprezzare nulla di quello che mi stava intorno, inoltre ho perso cinque finali e sono stato anche etichettato come “porta sfiga” e questo ha reso tutto ancora più compulsivo; la mia fame di vittoria cresceva sempre di più, nonostante età, infortuni e tempo sempre minore. Alla fine ho vinto, tre scudetti di fila. Come dice Gallwey, mi sono reso conto che la cosa che mi ha formato e dato di più è stato il viaggio per arrivare fino lì, l’esperienza della sconfitta mi è servita tantissimo.
Perdere quando pensavo di dover vincere rendeva la sconfitta inaccettabile, al contrario quando ero l’underdog (è un termine inglese che indica un atleta, oppure una squadra, dato per sfavorito dai pronostici nell’ambito di una gara sportiva) perdere diventava un’esperienza di crescita positiva. Guardando il viaggio, mi sono reso conto di aver abbattuto alcune interferenze, ma averne prese altre: il mio proiettarmi sempre avanti ha fatto si che non mi godessi nulla e che spesso facessi errori stupidi perché pensavo sempre al dopo.
Le domande che mi faccio ora sono: Volevo veramente vincere o per me era importante essere considerato un vincente e inserito in quella categoria di giocatori “che potevano parlare”? Se non avessi effettivamente vinto il titolo sarei qui ora a fare questo tipo di riflessione o sarei ancora fuori a rincorrerlo? Il contesto torna ad essere fondamentale, come dice Gallwey, e il fatto che gli atleti vivano in una società dove il risultato dice chi sei e cosa puoi fare, è da tenere bene in mente quando ci approcciamo a loro e proponiamo un percorso nel quale quel risultato pubblico non è poi così importante.
Da coach voglio che i miei atleti capiscano il “perché” e cosa li motiva ad essere lì in quel momento e a lavorare con me; è importante che acquisiscano consapevolezza delle loro potenzialità, delle loro motivazioni e di come gestire le pressioni esterne, i risultati arriveranno di conseguenza e andranno accettati e vissuti come esperienze dalle quali imparare sia che siano super positivi sia che non siano quelli sperati. Gallwey con “il gioco interiore del tennis” mi ha aperto gli occhi su certe cose e rafforzato altre mie credenze, ho iniziato ad applicare da subito alcuni suoi metodi con i miei atleti!